La spalla è l’articolazione più mobile del corpo umano. Questo complesso articolare possiede tre gradi di libertà, ed è in grado di orientare l’arto superiore nei tre piani dello spazio.
L’ampia mobilità di questo distretto, rende più complesso ed articolato il suo recupero funzionale.
Le patologie che interessano i soli tessuti molli (capsula, legamenti, unità muscolo-tendinea), hanno solitamente un esito favorevole per quello che riguarda il R.O.M passivo; quando invece ad essere compromesso è il distretto articolare, la mobilità passiva sui vari piani risulta generalmente limitata
con ampiezze variabili da paziente a paziente.
Nelle limitazioni articolari il fisioterapista si pone spesso la domanda se l’escursione raggiunta è la maggiore possibile o se sia il caso di continuare con ulteriori terapie.
Il rieducatore deve allora possedere dei dati e riconoscere i segni clinici in grado di rispondere a questa domanda.
Come capire se l’escursione articolare raggiunta rappresenta il nuovo limite fisiologico della “neo-articolazione protesica”?.
E’ possibile ottenere una maggiore mobilità?
Come evitare l’insorgere di una rigidità tissutale, evento in grado di compromettere la funzionalità del paziente e il buon esito dell’intervento chirurgico?
Per quello che riguarda i dati, la risposta è rappresentata dalla professionalità del chirurgo e dal buon rapporto tra le figure professionali che cooperano nel raggiungimento del miglior risultato possibile per il paziente.
Il chirurgo deve rilevare ed annotare la mobilità passiva su tutti i piani, effettuate nel post-chirurgico con paziente in anestesia, poiché i risultati funzionali dell’impianto, a fine terapia, non potranno essere mai superiori a quelli riscontrati passivamente durante le riduzioni di prova.
Queste ampiezze di movimento, annotate nella cartella clinica, saranno il punto di riferimento, la meta da raggiungere, per il fisioterapista e per il paziente.
Sfortunatamente nella pratica queste indicazioni non sempre vengono date ed il fisioterapista si trova a lavorare in assenza di punti di riferimento.
Altri aspetti fondamentali sono rappresentati dal buon atto chirurgico; non sempre l’impianto protesico rispetta l’anatomia:
• Protesi alta o protesi bassa
• Protesi sovradimensionata o insufficiente
• Errore di versione della testa
• Errore di posizionamento delle tuberosità
• Errore di versione dell’impianto glenoideo
• Eccessivo o alterato bilanciamento dei tessuti molli
Queste fattori possono essere causa di rigidità, è importante essere informati su tali aspetti per non accanirsi nei confronti di un recupero articolare impossibile da raggiungere.
Fatte queste considerazioni e certi di una ricostruzione più anatomica possibile, la riabilitazione dovrà prevedere una mobilizzazione passiva precoce (eccetto nelle protesi su frattura dove è bene attendere 10/15 giorni) a partire dal primo giorno post-chirurgico e condotta sia dal fisioterapista che da un mobilizzatore passivo (si consigliano 3 o 4 sedute distribuite durante la giornata in modo omogeneo, mattino, tardo mattino, pomeriggio, sera, della durata di 20-30 minuti ciascuna, seguite da 10-15 minuti di crioterapia in loco).
Le possibili cause di una rigidità tissutale possono essere:
• Ritardo nell’inizio delle mobilizzazioni passive
• Ridotta efficacia delle mobilizzazioni passive
• Inadeguato o eccessivo numero di sedute rieducative
• Inadeguato numero di esercizi domiciliari
• Presenza del dolore
• Paziente poco collaborante
Il terapista sarà in grado di capire se l’ampiezza raggiunta è la maggiore possibile, dalle sensazioni derivate dal fine corsa. Questo dovrà risultare come sensazione di arresto duro, lieve dolore o completa assenza e con dolore irradiato all’arto interessato non presente.
Evitati questi aspetti il risultato raggiunto, frutto di una buona chirurgia e di una corretta riabilitazione, sarà il migliore possibile.